(foto Gabriele Marabini)

Nuovo album e tour: un Paolo Conte trionfale alla soglia dei 78 anni

di Samuel Cogliati

Ha più di settant’anni e certi applausi, ormai, sarebbero comunque dovuti per amore. Invece non c’è stato nemmeno un briciolo di circostanza nell’accoglienza trionfale che i 1.400 spettatori salatamente paganti della sala Verdi del Conservatorio di Milano hanno tributato al Maestro, venerdì 28 novembre 2014.
Nel centenario dell’inizio del Novecento, Paolo Conte non vive di rendita. Ne avrebbe diritto e sarebbe comprensibile, dopo quasi mezzo secolo di onorata carriera. Invece continua a rimettersi in gioco e a reinventare, nel solco di Snob, ultimo album di studio pubblicato meno di due mesi fa, e probabilmente miglior lavoro dell’astigiano da oltre vent’anni.

Reinventarsi. È lo straordinario slancio che Conte dimostra di coltivare ancora, alla soglia dei 78 anni. La seconda serata della tappa milanese del suo tour è, come preannunciato, costellata soprattutto di classici – Max, Aguaplano, Via con me, Alle prese con una verde milonga, Diavolo rosso, Una giornata al mare… – ma pochissimi di essi hanno il sapore del déjà entendu. Va innanzi tutto precisata una cosa: il Paolo Conte di oggi ha fatto un piccolo e quasi impalpabile passo indietro, a favore della sua orchestra. Rimane ovviamente il perno attorno al quale ruota tutto lo spettacolo ma, «con una gamba per volta» il Maestro si «rifugia nel nulla».
Primo: mai i suoi pezzi hanno raggiunto un tale raffinato livello di orchestrazione. Secondo: mai i suoi strumentisti hanno goduto di una tale meritata centralità nei suoi spettacoli. Terzo: mai le loro perizia tecnica e ispirazione esecutiva erano arrivate a tali vette. Uno spettacolo di Conte, oggi, è un concerto corale, pur rimanendo naturalmente uno spettacolo suo a pieno titolo. La sensazione è però che si sia pienamente entrati in una fase “testamentale”, non fatta di rinunce, di tristezza o di ripiego, ma propositiva. La sensazione è che l’artista stia preparando la propria successione: da adesso in poi la sua band potrebbe, se volesse, sopravvivergli, senza scimmiottare la sua assenza.
Bisogna augurarsi che questi spettacoli siano registrati e che un giorno siano pubblicati, perché stiamo assistendo a un evento storico. Questo movimento del Maestro non ha il sapore di un abbandono o di un amaro addio, bensì quello generoso e intelligente dell’evoluzione della specie. I concerti odierni hanno compiuto un passo avanti, grazie al passo indietro del protagonista. Prima ancora che di un artista, è l’opzione di un uomo ammirevole.

Ovviamente non si tratta solo di una scelta. Il trascorrere del tempo lascia i suoi segni. La voce è poca e roca, va centellinata e gestita con parsimonia. Allo stesso modo, le energie fisiche vanno dosate. Logicamente la band acquisisce maggior visibilità. Ma diversamente da molti altri “grandi vecchi”, Conte non si eclissa passivamente, lasciando ai suoi musicisti l’incombenza di riempire lo spazio e il tempo rimasti orfani. No: ha costruito per sé un ruolo da regista – regista degli altri e di sé stesso – forse non indispensabile, ma di palpitante produttività.
Non più smoking – da tempo, peraltro – ma polo e giacca scure. Sempre più spesso non più seduto dinanzi il suo pianoforte ma in piedi di fronte a un’asta di microfono. La gestualità inelegante e spontanea di chi batte il tempo sulla coscia o sul fianco con modi da osteria. Il portamento curvato, non si sa se per scelta o per fatica. È questo il Paolo Conte da bocciofila che presiede alla sua disinibita grandezza. E la presenza scenica non flette di un centimetro rispetto alla prestanza di qualche decennio fa. Gesticola con le mani per aria, lateralmente come se provasse a spiccare il volo. L’evoluzione della specie passa dunque anche dal trasferimento dalla posizione seduta alla stazione eretta.
Appena goffo («l’inquietudine e gli inchini / fan di me un orango») ma di palpitante potenza espressiva, come potentemente espressiva è la voce residua che, a difetto di volume, pienezza e definizione, fa leva sulla forza del timbro e flirta con il parlato. Il dubbio che si tratti di uno stratagemma di mestiere non sorge mai. Così come non si subodora l’impostura nel Paolo Conte rumorista, tendenza non certo nuova – anzi, cifra perenne dello stile – ma oggi forse ancora più libera e decomplessata.
Sono questi gli elementi di un’ultima giovinezza. Il paradosso è che questa naturale, verace, anziana rusticità segna il compimento di una raffinatezza formale forse mai raggiunta prima. Uno dei rari segnali di questa stagione crepuscolare è il languore felpato che diversi brani hanno assunto.
«Per capirne un po’ di più […] non basta un attimo». Ma cento di questi anni.

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