Come il savoir-faire di sala può cambiare l’esito di una serata
(parte seconda)

di Giorgio Fogliani

maggio 2016

Nella prima parte di questo articolo ho insistito su come un personale di sala preparato sia condizione indispensabile per rendere davvero godibile una cena, e non solo nell’alta cucina. Ma a dimostrarlo in maniera lampante arriva l’esperienza: del resto, i clienti affezionati di un ristorante caro a Possibilia come Aromando Bistrot, per fare un esempio, sanno bene quanto sia prezioso il lavoro di Savio Bina; ma anche il successo di tavole di più recente apertura come Trippa e Contraste va senz’altro ricercato, oltre che in una cucina ben pensata e ben eseguita, nella competenza della brigata di sala.

Ultimamente, durante un viaggio in Jura, ho avuto l’ennesima riprova della veridicità di un’iconica e fortunata frase di Massimo Bottura, che lascio in coda a queste righe. Ho cenato per due giorni consecutivi in due ristoranti simili per fascia di prezzo, pubblico (mi sono stati consigliati, entrambi, da più parti) e cura nella selezione dei vini: ne sono risultate due esperienze opposte, nonostante – e questo è il primo paradosso – questa disparità non riguardasse il cibo in senso stretto. L’altro paradosso è che se mi fossi limitato alla prima impressione mi sarei sbagliato di grosso.

Primo ristorante: La Balance Mets et Vins ad Arbois, una sorta di “mostro sacro” della regione: una vecchia casa in paese, un ambiente caldo e accogliente, travi a vista, discreto vociare dei clienti, profumo di cucina casalinga.

Secondo ristorante: Le Grapiot a Pupillin: dimora di campagna ristrutturata con un gusto ultra-modernista, luci a faretto, materiali inusitati, carta dei vini su tablet, stoviglie dal design contemporaneo, suoni e profumi decisamente soffusi, a scatenare immediato il dubbio di esser capitati in uno stellato altoatesino.

Ma le apparenze, si sa, ingannano: alla Balance il (nuovo) gestore dimentica una prenotazione effettuata un mese prima via email: preso dal panico, sistema me e i miei amici in modo decisamente infelice (in tre su due tavoli rotondi affiancati, di modo che due commensali si guardino in faccia, mentre il terzo faccia da spettatore); il locale trabocca, il personale di sala è evidentemente improvvisato (vedansi i “ragazzetti” di cui alla prima parte), corre da un punto all’altro trasmettendo precarietà e concitazione. Le portate arrivano in ritardo, a volte sbagliate, e la serata è salvata, per così dire, “solo” dalla carta dei vini, che include vecchie annate e ricarichi ragionevoli, e dalla buona qualità del cibo (sempre a voler soprassedere su una selezione di formaggi che ne contiene tre pezzi, piccoli, mediocri e serviti con malagrazia naturale). Prenotato solo ventiquattr’ore prima della cena, Le Grapiot – superato lo choc dell’arredo – regala invece un servizio competente, cortese senza essere affettato, un’atmosfera rilassata, un tavolo ampio, una cucina curata che trova la sua apoteosi in un carrello dei formaggi da antologia: bello, ricco e ben illustrato. Per tacere della carta dei vini che, touch screen a parte, è varia e assai corretta.

A parità di numero di portate e prezzo dei vini – ed ecco il terzo paradosso – il conto è più salato alla Balance, dove emergono sovrapprezzi scritti in piccolo sulla carta e il disservizio non comporta un solo euro di sconto.

La morale è abbastanza palmare: sebbene non vada dimenticato che gli incidenti càpitano (e le serate di grazia pure) e che il giudizio va suffragato da nuove visite, sembra che a uno solo dei due ristoratori sia chiaro come vada gestita una sala e, soprattutto, quanto sia importante.

«Il 52% della soddisfazione finale del ristorante deriva dalla sala. Solo il 48% dalla cucina». (M. Bottura)

fogliani@possibiliaeditore.eu