di Igor Vazzaz

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Battiato è stato tutto, e il suo contrario. Anche per questo è difficile darne definizioni che possano soddisfare qualsivoglia sguardo. Anzi, a ben vedere, persino il volerlo incasellare nella categoria cantautorale, che certo non può essergli estranea, suona quasi come una reductio, giacché l’approdo alla canzone più precipuamente d’autore, abbandonando le sperimentazioni elettroniche e minimalistiche dei suoi primi anni Settanta, è giunto con un certo ritardo rispetto agli altri grandi esponenti della sua generazione, ai suoi “colleghi”. E volerlo ricordare per La voce del padrone, disco indubbiamente apicale sia per la sua carriera sia per la categoria in cui contribuì a far inserire il suo autore, o per i successivi, senza prendersi carico di tutto il resto è operazione a rischio miopia, specialmente se si volesse risultare coerenti rispetto alle visioni del mondo via via espresse dallo stesso artista attraverso un percorso che ha abbracciato, oltre alla canzone d’autore, la musica colta, l’opera, la regia cinematografica, la letteratura, persino la pittura.

Certo, il successo massivo piovutogli addosso dai primi anni Ottanta in poi è, senza dubbio, la principale ragione d’una fama indiscutibile, nonché dell’attuale risalto concesso alla sua dipartita: il titolo di Maestro, attribuitogli quasi per acclamazione a causa di quell’aria da saggio flemmatico eppure mai abdicante all’ironia, dimesso ma non prono, è qualcosa che, forse, non ha cercato o coltivato in prima persona, ma, a ben vedere, neppure impedito, coerente, ci pare, con una doppiezza che, lungi da giustificare un’accusa di falsità, ci sembra caratterizzante gran parte della sua opera.

La sua ricerca ha sempre abbracciato, in una divaricazione forse impossibile e per questo interessante, l’alto e il basso, la speculazione quasi parossistica (potremmo citare i passaggi delle sue canzoni a proposito di Sumeri, ma non solo) e un citazionismo (quasi) spicciolo, a comporre un quadro di riferimenti tra Caetano Veloso e Lou Reed che un osservatore poco clemente potrebbe avvertire ben più come segno di provincialismo anziché di apertura internazionale. E, in questo senso, proprio nell’impossibilità di sciogliere consimile enigma, quasi un «Ci era o ci faceva?», che potrebbe risiedere un altro aspetto, sicuramente ignorato dai più inclusi i fan maggiormente accaniti, della sua grandezza. Perché, ed è questo che chi come noi della razza di chi rimane a terra ama pensare -in positivo- dell’artista catanese, solo un autore malignamente beffardo poteva chiosare una mirabile costruzione d’ambiente com’è quella della prima parte del brano Prospettiva Nevski con una conclamabile banalità circa l’alba contenente l’imbrunire, ed è forse in questo gioco di nascondimenti, nella danza tra serio(so) e faceto, nell’impossibilità di stabilire con certezza se e quanto di vero risiedesse nelle sue opere, che sta una delle precipue qualità di Battiato.

E, alla fine, forse, hanno tutti ragione: i suoi più ferventi sostenitori, innamorati d’un cantautore fattosi (anzi: fattolo) guruesco santone, e i suoi detrattori, e non son pochi, spesso a naso storto dinanzi a certe sue iperboliche impennate tra filosofico e canzonettaro. Estremi inconciliabili, forse; oppure no, bensì in cerca, disperata e divertita, d’un centro di gravità permanente. •