(fotografia © Halarà)

di Giorgio Fogliani

ottobre 2020

Un luogo in continuo divenire. Il potenziale che ho raccontato ne Il futuro di Marsala si sta via via dispiegando. I terreni vitati, o vitabili, non mancano; la loro vocazione è difficilmente discutibile (il territorio è relativamente uniforme per geologia e conformazione); il clima è dei più clementi. È così che a poco a poco i vignaioli conferitori diventano vignaioli indipendenti, si recuperano le vigne abbandonate, le generazioni si avvicendano. Una dinamica non esclusiva, beninteso, della sola Marsala (si incontra anche nel Midi francese e in altri luoghi dell’Italia del sud) ma che qui pare illustrarsi con particolare evidenza. Comprenderla è importante tanto quanto ragionare di suoli, sottosuoli, vitigni e tecniche di vinificazione.
I percorsi di Nino Barraco o di Vincenzo Angileri (Viteadovest), all’inizio del primo e del secondo decennio di questo secolo, vanno letti proprio in questo senso: convogliare un vigneto, una storia familiare in una dimensione contemporanea, di vino in bottiglia, agricoltura pulita e poliedricità espressiva.

Potrebbe essere simile la storia di Salvatore Bertolino, che assieme al fratello riprende le vigne di famiglia nel 2014, cominciando a vinificare per hobby e per consumo personale. Dal 2018, incoraggiato e aiutato da Vincenzo Angileri, il grande passo e la prima etichetta commercializzata di un bianco da catarratto, Fuitìna (1).La versione 2019 (2 giorni sulle bucce, 8 mesi in acciaio) ha dato un vino dalla veste quasi ambrata, venata di rosa; profumi di salvia, fieno, erba tagliata, con un che di arso; acidità protagonista, che suggerisce di portare il vino a tavola e a non meno di 12 °C. Meno riuscita la versione 2019, prima assoluta, del rosso Majàra (2), da un’uva misteriosa detta parpàto, su cui vale la pena spendere qualche parola: introdotta a Marsala nel Novecento e a lungo presa per frappato (di cui parpato sarebbe una versione dialettale), è stata poi scambiata per grenache. Viene detta anche quattro rappe [quattro grappoli, la fertilità di ogni branca]. Gli ultimi studi rivelerebbero invece trattarsi di carignano. Quest’ultimo è presente in Sicilia soprattutto sotto il nome di nerello cappuccio: i due sono ufficilamente sinonimi secondo il Registro Nazionale delle Varietà di Vite, ma potrebbe anche darsi, come ipotizza uno studio, che il carignano abbia, nel tempo, soppiantato una parte del nerello cappuccio, confondendo le acque.

Ha invece nome greco un’altra promettente nuova realtà marsalese: Halarà (χαλαρά) è un avverbio e significa letteralmente in modo rilassato, ma è un’esclamazione usatissima in Grecia (è anche il titolo di una canzone pop) che sta per con calma!, senza fretta!, tranquillo/a! e via dicendo. I greci la usano per prendere tempo, esorcizzare la fretta e godersi la vita, oppure per raffreddare animi troppo caldi, un po’ come lo shalla di derivazione araba ma diffuso in molti gerghi giovanili italiani. Riflette insomma un modo d’intendere la vita decisamente mediterraneo, se mi si perdona lo stereotipo. Proprio il Mediterraneo sembra essere al centro della riflessione dei sei vignaioli e rispettive famiglie che stanno dietro Halarà: il cortonese Stefano Amerighi, il marsalese Nino Barraco, Francesco De Franco da Cirò Marina, Corrado Dottori da Cupramontana, il pantesco Francesco Ferreri e il messinese Giovanni Scarfone sono infatti tutti, in una certa misura, affacciati sul “Mare di mezzo”, inteso come luogo di civilizzazione e ponte culturale, come suggerisce la citazione dello storico francese Braudel che i sei hanno scelto di stampare in retroetichetta.
Ma per restare al vino, Halarà prende le mosse da due ettari in contrada Abbadessa, non lontano dal mare, a Marsala, piantati per 2/3 a parpato e per il restante terzo a catarratto, entrambi di una quarantina d’anni. Abbandonata e destinata all’espianto, viene “salvata” dai sei vignaioli, che iniziano a vinificarla nel 2019. Il primo anno vede prodotti un rosso, un rosato e un bianco. Col 2020 dovrebbero restare due soli vini, un bianco e un rosso leggero. Le prime impressioni sono buone, nonostante un’annata in cui si è dovuto prendere le misure al “nuovo” vitigno e “rianimare” una vigna in stato di abbandono. Il rosato è sanguigno e sugoso, molto spontaneo (arancia rossa, carne cruda, timo: bevuta dinamica e dalla sapidità autentica): davvero un peccato perderlo, anche perché lascia intravedere una vocazione rosatista di Marsala mai davvero approfondita. Più difficile il rosso (vinificato parte a grappolo intero, parte diraspato, con una macerazione di circa 2 settimane): solare e speziato (liquirizia, carruba, olive, pepe) ma scontroso, animato com’è da un’acidità elettrica, esplosiva ma un po’ monopolizzante.
L’originalità del progetto e la curiosità che inevitabilmente desta stanno anche nel suo coinvolgere sei produttori diversi e altrettante sensibilità ed esperienze: fonderle, trasformarle in un nuovo soggetto, in una certa misura indipendente dalle sue parti (per non dire delle difficoltà logistiche dell’abitare, per cinque di loro, altrove) sarà la vera sfida di Halarà.

La buona salute di Marsala si misura poi anche nella sua attrattività per produttori “forestieri”, anche se Manlio Manganaro, oste dell’Infernot di Pavia, è siciliano d’origine e conosce il territorio da tempo. Si è dedicato a un solo vino, un grillo, con un raspo in etichetta a testimoniare della sua passione per la vinificazione a grappolo intero, quest’anno particolarmente inventiva: il 50% della massa ha macerato 6 giorni ad acino intero (ma senza raspo), con lo sviluppo di una leggera macerazione carbonica, quindi è andato in pressa; il restante 50% ha svolto 6 giorni di macerazione carbonica classica (quindi a grappolo intero), poi è stato bagnato con il mosto dell’altra metà e ha proseguito la macerazione per altri 13 giorni; le due masse sono state quindi svinate e unite. Il 2019 è stata la sua terza vendemmia, e mi è parso segnare un passo in avanti: il vino, di un dorato pieno, è tonico e genuino, di scuola macerativa: note dolci, floreali e bucciose, appena erbacee. Attacco avvolgente, poi più ritmato. Chiusura leggermente amara, ma bilanciata.

Marsala potrebbe essere una specie di proiezione, o di sintesi, del Mediterraneo: un luogo aperto, in grado di accogliere, senza scomporsi e senza perdere identità, stili, sensibilità e persino uve diverse – natura e qualità del parpato rimangono peraltro una questione aperta – e riafferma, se ancora ce ne fosse bisogno, la propria vocazione vitivinicola a tutto tondo, non più limitata a ossidativi e fortificati. •

fogliani@possibiliaeditore.eu


(1) Letteralmente “fughetta”, il termine siciliano indica, nella cultura popolare, una fuga di qualche giorno architettata da due innamorati per indurre le proprie famiglie a concedere, per evitare lo scandalo, un matrimonio altrimenti indesiderato. Purtroppo, non in tutti i casi la fuga era condivisa anche dalla metà femminile della coppia. Per Salvatore Bertolino, però, nulla di tutto ciò: la sua personale fuitina – dalla quotidianità, dalla città – era andare a lavorare la vigna; da qui il nome del vino.

(2) Ancora la cultura popolare nella scelta di questo nome: la majàra è una sorta di maga/fattucchiera/guaritrice.