(fotografia Vee-BY – www.flickr.com)

di Samuel Cogliati

maggio 2019

Forse non diversamente dal resto del mondo, l’Europa attuale è sottoposta alla pressione di due fenomeni di rilevanza storica, verosimilmente connessi tra di loro.

Da un lato merita molta attenzione l’arretramento del razionalismo del pensiero e della capacità della scienza a incidere sulle scelte dell’umanità. Di recente qualcuno ha rilevato il paradosso del nostro tempo: la scienza non è mai stata così efficace nell’analizzare le situazioni, i fatti, e nel fare previsioni attendibili. Contestualmente è in grado di proporre strategie e soluzioni, forse non infallibili, ma cui sarebbe ragionevole affidare le agende politiche ed economiche. Lo stravolgimento climatico – di cui si inizia a parlare con quarant’anni di ritardo – è il più evidente dei fronti su cui si può misurare questo fenomeno; ma anche l’inquinamento globale o la gestione delle terre e delle risorse alimentari richiederebbero pari dedizione.

Invece la dialettica e la propaganda politiche fanno ormai astrazione di questi strumenti scientifici, che dovremmo accogliere come una benedizione. Anzi: il livello del “dibattito” attuale non è mai sceso così in basso da decenni, e la maggior parte dei programmi (quando esistono) si basano su ciò che si è soliti chiamare «voto di protesta», parlando «alla pancia del Paese»; dimenticando che si ragiona con la testa e non con l’intestino. Eppure il martellamento mediatico incessante e la falsificazione dei fatti riesumano un adagio che speravamo di aver dimenticato: diceva Goebbels, il ministro della propaganda nazista, che basta ripetere tante volte una menzogna per convincerne il popolo.

D’altro canto le idee anti-europeistiche guadagnano terreno e si radicano in ormai quasi tutti i Paesi dell’Unione. Sarà forse una tendenza temporanea, ma durerà ancora a lungo. Spesso gli argomenti portati da chi rivorrebbe più autonomia decisionale su base nazionale o da chi spera di uscire dall’UE sono di natura affettiva ed emozionale, non razionale. Così come il rifiuto dei princìpi di solidarietà umana più elementari, che porta a ripudiare il flusso di migrazioni che bussano alle porte dell’Europa e che sono in buona parte figlie proprio delle scelte politiche ed economiche del modello occidentale.

Il rigurgito nazionalista può purtroppo anche essere comprensibile, perché destabilizza un sistema di benessere consumistico cui siamo abituati e che invece prima capiremo che non può reggere, e meglio sarà. Del resto, come ricordava il presidente francese François Mitterrand, «Il nazionalismo è la guerra». E la guerra, l’abbiamo dimenticato (molti di noi non l’hanno mai sperimentato, dunque ahimè mai saputo), è ciò che proprio il processo di avvicinamento e di unificazione europei ci ha risparmiato negli ultimi settant’anni. La guerra non è, come farneticavano un secolo fa i futuristi, «la sola igiene del mondo», bensì una spirale di sofferenza, dolore, morte, ingiustizia, distruzione, tragedia.

I sovranismi e il nazionalismo funzionano, anche perché non funziona l’economia ultra-liberista. E trovano facile consenso dato che quest’Europa, così com’è, non funziona. È un’Europa economico-finanziaria troppo poco sociale e democratica; va riformata in profondità e in fretta, altrimenti rischia di implodere. Eppure l’UE è un po’ come il lavoro: ti vincola, ma perderlo non ti libera1. Se ci sono problemi in un condominio si discutono, si affrontano e si risolvono, non ci si fa i dispetti tra condòmini né tanto meno si va a vivere sotto i ponti (perché la prospettiva della villetta individuale con giardino è utopia, non realtà).

Sono convinto che l’UE odierna non funzioni perché ha troppo poca sovranità, non troppa. È difficile pensare che si possano prendere decisioni equilibrate ed efficaci all’unanimità, senza consenso popolare né vera legittimità (come fa il cosiddetto “Eurogruppo”), lasciando margini di contestazione, evasione, libertà, iniquità ai singoli Stati per ratifiche e applicazioni, ecc. Credo che il problema non sia decentralizzare le decisioni – per quanto in alcuni casi sia un’ipotesi utile –, ma renderle omogenee, eque, ponderate, solidali.

L’Europa degli Stati-nazioni, nati secoli fa e ormai del tutto inadeguati a far fronte alla mondializzazione, è anacronistica. Penso che il futuro sia un’Europa dei popoli, unita, coesa, giusta, magari con rilevanti autonomie su base regionale, anziché statale, in modo da adeguare gli strumenti alle necessità locali.

Tra pochi giorni voteremo per eleggere il nostro Parlamento. Mi auguro che ricorderemo che siamo ormai europei, più che italiani, francesi, tedeschi, greci, lituani. E mi auguro che le infantili strumentalizzazioni che sentiamo ormai ogni giorno, attraverso le quali qualcuno rivendica la superiorità, l’orgoglio o la priorità degli austriaci sugli slovacchi, o peggio dei fiamminghi sui valloni, non prevalgano. Tutto questo fa ormai parte del passato. 

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1 Come recita la scena finale del film Il vangelo secondo Precario, di Stefano Obino, Oltremedia, 2005.