(Parigi – fotografia di Samuel Cogliati)

Ciò che la Francia rappresenta

di Samuel Cogliati

All’indomani di una strage di mafia abbiamo spesso visto manifestazioni guidate da striscioni con lo slogan “E adesso ammazzateci tutti”. Una reazione di questo tipo è impossibile dopo le stragi terroristiche di Parigi del 13 novembre 2015. Il motivo è semplice: nel primo caso l’uccisione non è lo scopo primario dei criminali; nel secondo sì. Ha detto bene chi sostiene che le vittime di Parigi non sono state designate per ciò che facevano bensì colpite a caso per ciò che erano, ovvero persone libere. Libere di fare e libere di pensare. Questi sono concetti che diamo per scontati, perché la maggior parte dei cittadini occidentali è nata e cresciuta in una società in cui fare e pensare ciò che si vuole è la base del vivere sociale, limitata dal rispetto della sensibilità e della libertà altrui. Questa civiltà è fatta di un insieme di società diverse; ma oggi tocchiamo con mano quanto siano più simili che differenti tra di loro le culture, le mentalità e le leggi francesi e spagnole, italiane e statunitensi. È forse per questo motivo che in questi giorni in cui la mente rumina incessantemente pensieri e riflessioni in un turbinio incontrollabile, mi sono sorpreso a canticchiare mentalmente L’Internazionale laddove ero convito di cantare La Marsigliese (anche se ne stavo cantando il testo in francese): “C’est la lutte finale / Groupons-nous et demain / L’Internationale sera le genre humain… ” [“È la lotta finale, / Uniamoci, e domani / L’Internazionale sarà il genere umano.”] Non ingannatevi, no: i miei non erano un canto, un proposito né un lapsus politici. Erano umanistici. Ciò che interessava il mio inconscio era, naturalmente, il senso delle parole. 

Nessuno è in grado di dire se la decisione di entrare in guerra – o di adeguarsi de facto a uno stato di guerra – militarmente e non solo concettualmente contro Daech sia giusta o risolutiva. Io non posso esimermi da considerare che, per quanto sappia e ricordi, nessuna guerra mi pare abbia mai risolto dei problemi; anzi. Tuttavia questa riflessione potrebbe essere inopportuna e anacronistica. Anacronistica, sì, perché il nostro modo di pensare è figlio di una stagione – una breve stagione, nella storia dell’Umanità – di pace relativa, quanto meno in Occidente. Noi quarantenni, ventenni, sessantenni abbiamo goduto più o meno indisturbatamente di libertà che, a ragione, consideriamo irrinunciabili e inviolabili quanto ovvie. L’idea di comprimerle, restringerle o rimetterle in discussione allo scopo di provare a garantire sicurezza alle nostre società ci pare angosciante, se non abominevole. Ma forse dimentichiamo che quelle libertà di espressione, di azione, di scelta, ecc. sono state rese possibili per decenni dalla presenza pressoché invisibile, ai nostri occhi, della sicurezza sociale. La nozione di guerra, e ancor più le conseguenze pratiche e reali di un conflitto armato ci sono ignote, dunque difficilmente concepibili. Dobbiamo tuttavia considerare che le cose sono cambiate. Non sappiamo come né per quanto tempo.

Questo mutato clima politico, sociale, culturale mi ha sconvolto quando ho sentito il presidente della Repubblica François Hollande dichiarare lo stato di guerra e parlare di revisione sicuritaria della Costituzione e, di conseguenza, dello Stato di Diritto. Che il mio Paese sia in guerra, che chiuda le frontiere, è inconcepibile per me che da 39 anni viaggio più volte l’anno da uno all’altro dei miei due Paesi. Eppure è così. Mi sono chiesto a lungo e ripetutamente perché questo mi sconvolgesse così profondamente. E finalmente ho trovato una spiegazione. È un motivo reale, anche se è sostenuto da implicazioni idealistiche, di quel sentimentalismo patriottico francese che in Italia si confonde spesso con una grossolana idea di grandeur.
Oltre alle cause militari, strategiche, politiche, sociali, ecc., uno dei motivi per cui la Francia è attaccata dal terrorismo è ciò che essa rappresenta, all’estero più che in patria, tanto che forse non sempre i francesi ne sono pienamente consapevoli. Questa cosa si chiama libertà. Non sto parlando di quella libertà profonda, umanistica, giuridica direttamente connessa ai diritti umani più elementari e che molti occidentali hanno la fortuna di possedere ancora. Mi riferisco a una libertà apparentemente più minuta, che può esprimersi perché deriva dalla prima: una libertà di matrice quasi filosofica. Ovvero la libertà di godere appieno, personalmente, individualmente e collettivamente della felicità e del piacere della vita. È questo che la Francia simboleggia, penso, come nessun’altra nazione al mondo.

In questi giorni mi sono imbattuto in Rete in un testo presentato come un commento a piè di pagina di un lettore di un articolo apparso sul New York Times. Non sono in grado di dire se questa fonte sia attendibile o meno, ma importa poco. Ciò che conta è che qualcuno abbia scritto queste righe; non saprei fare di meglio, quindi le propongo tradotte in italiano (è dunque probabilmente la traduzione di una traduzione, cosa che non si dovrebbe fare, ma tant’è):
“La Francia incarna tutto ciò che i fanatici religiosi del mondo detestano: la gioia di vivere attraverso una miriade di piccole cose: il profumo di una tazza di caffè e dei croissant al mattino, belle donne nei loro abiti che sorridono liberamente per strada, l’odore del pane caldo, una bottiglia di vino condivisa tra amici, qualche goccia di profumo, i bambini che giocano nei giardini del Lussemburgo, il diritto di non credere in alcun dio, di irridere le calorie, di flirtare, fumare e godersi il sesso fuori dal matrimonio, di andare in vacanza, di leggere qualunque libro, di andare a scuola gratuitamente, di giocare, ridere, litigare, prendersi gioco dei prelati come dei politici, di non preoccuparsi della vita dopo la morte. Nessun altro Paese in Terra ha una migliore definizione della vita dei francesi”.

Liberiamo subito il campo dalle implicazioni d’orgoglio nazionalistico, poco interessanti, e chiariamo anche che quest’immagine inizia a essere un po’ datata: nei fatti era più attendibile alcuni anni or sono di quanto non sia oggi. Rimane il fatto che nell’immaginario collettivo quest’immagine è tuttora valida e viva, se non altro come fonte di ispirazione.
Con le dovute distinzioni connesse alla pluralità delle diverse culture occidentali, l’apprezzamento di quest’idea di fondo ci accomuna: francesi, italiani, spagnoli, tedeschi, inglesi, olandesi, danesi, canadesi… Ecco perché, se la Francia non può sottrarsi agli sconvolgimenti che il 2015 ha definitivamente imposto nella sua Storia, credo che il resto dell’Occidente, a iniziare dall’Europa, non abbia scelta a sua volta. L’Europa degli Stati nazionali non ha futuro, né forse ce l’ha più a medio-lungo termine l’Occidente degli Stati nazionali. Il nostro destino comune è internazionale o sovranazionale. Stiamo vicini.

cogliati@possibilia.eu