Sono stato ai Grands Jours de Bourgogne: una cosa divertente che forse rifarò

di Giorgio Fogliani

• maggio 2022 • 

«Alla vostra sinistra potete ammirare i migliori cru del mondo!» dichiara orgoglioso l’autista della navetta che ci porta da Beaune alla Tonnellerie Rousseau di Gevrey-Chambertin, sede di uno dei saloni dei Grands Jours de Bourgogne. 

A me viene da sorridere, un po’ per la perentorietà dell’affermazione, un po’ per l’ingenuità del conducente: sta percorrendo l’arcinota, osannata, scenografica D974 (la Route des Grands Crus, appunto) e dovrebbe sapere che le otto persone che sta portando sanno benissimo dove sono; se sono lì per la prima volta l’hanno immaginata e studiata sui libri; se no, hanno già l’aria navigata dell’habitué

Eppure sembra che l’autista – che probabilmente non ha niente a che fare col vino né forse con la Borgogna, a giudicare dall’accento – rivendichi in qualche modo la sua parte di gloria. Insomma, è un po’ terroir anche lui.

Tutto è gloria, tutto scintilla in questo marzo tiepido di ripresa, in cui la Francia ha precocemente congedato quasi tutte le restrizioni pandemiche, per le elezioni c’è ancora un mese e i Grands Jours, che sono biennali, non si tengono dal 2018. 

Tutto scintilla, anche se non tutto allo stesso modo. A Chablis c’è meno calca che a Gevrey, e ad assaggiare i saint-bris e i vézelay ce n’è meno che ad assaggiare gli chablis, il che ha varie e intuibili spiegazioni (la gerarchia, la reputazione, la presenza sul mercato) meno una, non trascurabile: la bontà dei vini. I vézelay della Sœur Cadette per esempio sono golosi, precisi e cristallini (“Les Saulniers” 2020 su tutti), mentre la maggior parte degli chablis sono rigidi e nervosi, e per assaggiarne di davvero coinvolgenti bisogna quasi sempre saltare i village e andare su Premier e Grand cru (Valmur e Le Clos 2019 di Christian Moreau in grande spolvero). 

L’aria di eccezionalità, di esclusività, è contagiosa; fa un effetto giostra, anche grazie all’organizzazione minuziosa e sapiente del BIVB. Tutta Europa (meno i russi, in altre faccende affaccendati) sembra essersi data appuntamento per assaggiare vini che farà sempre più fatica ad acquistare; così il micro-assaggio destinato allo sputo acquista un valore fondativo, una dimensione ulteriore da imprimere in una memoria assetata di punti di riferimento. 

Ma eccezionali sono purtroppo, sempre di più, anche le annate, e non solo per le ormai frequenti gelate e grandinate: la 2018 è stata l’ennesima stagione torrida e precoce, e ha dato vari vini che possono lasciare interdetti: irancy da 15% d’alcol o nuits con profumi cognaccosi e tannini sgraziati (il savigny-les-beaune Premier-cru Les Lavières di Athénaïs de Béru invece è una perla: floreale e orientaleggiante; denso ma soave). I produttori lo sanno, lo sanno anche gli enotecari: per parlar bene di un’annata non dicono millésime extraordinaire, ma millésime normal, con il sospiro complice e un po’ amaro di chi sa che un’annata “normale” è ormai un’annata eccezionale, e viceversa.

(lo Château de Gilly a Gilly-lès-Cîteaux © Giorgio Fogliani)

Altri assaggi notevoli

Chambolle-musigny “vieilles vignes” Liger-Belair 2020
Chambolle atipico nei suoi tratti mediterranei; coinvolgente, con sensuali note di fragola matura. 

Morey-saint-denis Domaine du Clos de Lambrays 2020
Stile sontuoso e sicuro, che mima in piccolo il celebre (e buonissimo) grand cru di casa. Tocco setoso, elegante e trasognato. 

Bourgogne-tonnerre Dominique Gruhier 2020
Fiori bianchi ed erbe, burro e nocciola: un borgogna bianco classico, autorevole e con il dono della freschezza.

Marsannay “Clémengeaux” Sylvain Pataille 2019
Speziato e di carattere quasi selvaggio, come spesso i vini di Pataille: in questo momento si esprime meglio di altri cru. •

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