Il presidente dell'Association Champagnes Biologiques, Pascal Doquet, durante l'assemblea generale di febbraio 2021 – Fotografia © ACB

(Il presidente dell’Association Champagnes Biologiques, Pascal Doquet, durante l’assemblea generale di febbraio 2021 – Fotografia © ACB)

L’anno scorso ha registrato un +70% di conversioni al bio

di Samuel Cogliati

marzo 2021

La Champagne è storicamente nota come il fanalino di coda del biologico tra le regioni viticole francesi. A farle compagnia solo la Charente – che produce soprattutto uve per il cognac –, mentre regioni come la Provenza, l’Alsazia, il Languedoc o la valle del Rodano vantano tassi di produzione bio anche dieci o quindici volte più alti. 

Quanto meno questa era la situazione fino a un anno fa. Complici un millesimo eccezionalmente clemente sul piano sanitario (specie per la peronospora), una tendenza generale sul piano nazionale, i dati molto incoraggianti del mercato dei vini bio, e anche nuove norme locali (che impongono “cuscinetti” di sicurezza nel distanziamento dalle abitazioni), il 2020 ha segnato un balzo mai registrato prima. Non si può neppure escludere che, avendo liberato tempo ed energie da altre attività (marketing, vendita, ecc.) a causa della pandemia, i vignaioli si siano dedicati con più attenzione alle vigne, e abbiano avviato salutari riflessioni.

Quali che siano le cause, la Champagne ha visto l’anno scorso ben 158 aziende produttrici convertire al biologico un totale di 812 ettari vitati. Lo ha annunciato durante l’assemblea generale dell’Association des Champagnes Biologiques (ACB) il suo presidente, Pascal Doquet. Che fa notare: «Si tratta in un solo anno dell’equivalente di circa il 70% delle vigne già convertite in precedenza». Insomma, un evento che definire “boom” è quasi eufemistico.  Con questi numeri «ci avviciniamo al 6% della superficie di tutta la Champagne AOC», sottolinea Doquet. Se per qualche regione è ancora poco (e si tratta di un valore molto sotto alla media nazionale), rispetto all’1,3% di pochi anni fa è un grosso passo in avanti. Ed è un passo enorme se pensiamo alle pratiche mortifere per il terroir che costituivano la regola o quasi venti o trent’anni or sono. 

«Anche l’interesse delle grandi maisons si sta materializzando», fa notare Pascal Doquet «e il lavoro di filiera bio ha da poco visto aggregarsi alcune cantine cooperative nonché enti locali». Attenzione, però, avverte il presidente: la conversione al biologico deve riguardare l’intera azienda (la convivenza con il convenzionale è ora limitata a soli due anni, oppure a un solo colore di uve. «Questa convivenza non può far parte del progetto bio. Il biologico, infatti, non si pone solo l’obiettivo di produrre generi biologici. Il bio cerca innanzi tutto di impegnare il mondo agricolo a liberarsi dall’uso delle sostanze di sintesi, di cui si scoprono ogni giorno nuove conseguenze deleterie». • 

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