Ebbene sì: ci siamo cascati di nuovo. E il Bistrot milanese ci ha regalato nuove conferme. Bene, bravi, tris.

di Giorgio Fogliani

Milano, settembre 2014

Con delle premesse così incoraggianti, mi sono detto che da Aromando Bistrot dovevo proprio andarci: l’articolo di Samuel Cogliati mi aveva incuriosito. Allora ci sono andato, e mi sono trovato benissimo: un’esperienza appagante, rilassante, decisamente apollinea.
Sarà il décor: si fa presto a dire design anni Cinquanta (o Sessanta), qui dentro c’è un po’ di tutto – Nordeuropa, Londra, Italia del boom. Un tutto in perfetto equilibrio, che ha trovato la sua quadratura fatta di spazi larghi ma non vuoti e di varietà di oggetti, stili e forme, senza confusione.
Il menu presentato all’interno di vecchie riviste di cucina sarà anche un po’ una strizzatina d’occhio, ma mi ha divertito, e ancora di più mi convince il tentativo di superare la classica declinazione antipasto-primo-secondo, in una forma olistica che si limita a proporre i piatti, tutt’al più riconducibili a uno schema entrée-plat, ma lasciando al cliente la piena libertà di interpretare e comporre. (Più postmoderno di così…)

La cucina di Cristina Aromando guarda un po’ alla Francia (il burro salato per accompagnare il pane, la scaloppa di foie gras, i volatili) e un po’ al Mediterraneo (il polpo, il calamaro, la parmigiana, lo yogurt greco). A me sembra – ma ho più indizi che prove, quindi cautela d’obbligo – che si vada meglio sulla carne che sul pesce: gli spaghetti con aglio prezzemolo e ricci di mare sono corretti ma li avrei voluti più audaci, mentre la lingua di vitello da latte, crema di piselli e pinoli tostati è un piatto da antologia, come pure il piccione alla chartreuse verde (petto scottato lato pelle + coscetta al forno + samosa con la carne restante + una tazzina di consommé), entrambe le carni di rara e preziosa tenerezza. Ma la proposta è davvero varia: faraona con finocchi e arance, trancio di ricciola, carni rosse succulente.

Il servizio è cortese, attento, mai affettato. Se è vero che può capitare di ravvisare qualche indecisione tra cucina e sala, o tra sala e cantina, ci si può però anche imbattere in piacevoli sorprese, come vedersi arrivare un assaggio di comté prima del dessert, oppure, tra una portata e l’altra, degli gnocchi di patate al burro di nocciole, scalogno (un po’ troppo al dente, per la verità) e caviale – un piatto che, perfezionato, potrà regalare emozioni. Interessanti i dolci, sempre preceduti da deliziosa piccola pasticceria da forno, con proposta di vini in abbinamento: io sono andato sul classico e sul goloso con una mousse di cioccolato fondente e coulis di frutti rossi.

La carta dei vini è un bel libro, rilegato a spirale senza tanti orpelli e pieno di bei riferimenti, tutti, lo si intuisce, molto personali: Savio Bina ha un occhio attento alla Francia e ai migliori tra i produttori biologici e biodinamici; prezzi a volte alti ma onesti e con qualche chicca più che abbordabile (il Dolcetto di Dogliani San Fereolo 2003 a 27 euro, per esempio) e, soprattutto, una proposta al bicchiere che dà piena soddisfazione (vedi i rossi di Dettori e Barraco). Per intenderci, il confronto con certi ristoranti stellati che propongono una carta vini su tablet, ma etichette poche e scontate, è impietoso.
Ma il vero motivo per andare e per tornare al Bistrot, addirittura per farne un punto di riferimento nella variegata offerta milanese, è una sensazione di armonia che si coglie pressoché subito, una volta entrati: la percezione di trovarsi in un ristorante con una personalità ben definita, originale, ma soprattutto perfettamente a proprio agio, che non comunica intellettualismo, provocatorietà o vezzi di alcun genere, ma solo un’idea di ristorazione precisa, solida, buona.

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