di Samuel Cogliati Gorlier

• 27 gennaio 2025 • 

Grazie ad AIS Milano e a Première Italia – che ringrazio –, ho avuto oggi a Milano la possibilità di partecipare a una degustazione collettiva di champagne come non accade tutti i giorni, anche in virtù delle buone condizioni in cui è stata organizzata.

Non si è trattato di una maratona ma nel mio caso dell’assaggio di una trentina di cuvée di zone e aziende diverse, prevalentemente récoltants, foriero di qualche spunto di riflessione. Ovviamente senza alcun valore statistico ma, sommandosi agli assaggi sparsi della quotidianità, utile per contribuire ad alcune impressioni di massima sull’attualità champenoise.

Iniziamo dalla confezione dei vini. Rispetto anche a soli alcuni anni fa, la cura formale degli champagne appare più solida e precisa. È sempre più raro constatare bottiglie palesemente goffe o pesantemente sgraziate. Semmai si avvertono talora piccole incertezze che sembrerebbe di poter ricondurre a una questione di maturità fenolica.

Questa cura enologica non marcia di pari passo con l’espressività. Ancora oggi non mancano champagne di personalità modesta, il cui timbro geografico sembra ridursi alla nervosità gustativa. (E questo del tutto indipendentemente dall’areale di provenienza delle uve; i migliori vini di oggi provenivano da una zona assai poco considerata: la Vallée de l’Ardre). 

Questa durezza è tutt’oggi spesso compensata, quanto meno nelle intenzioni dei vinificatori, dalla liqueur d’expédition. Non appena si esce dal “nòcciolo di élite” (per fortuna in chiara espansione) dei vignaioli champenois, la tentazione di ricorrere a 5, 6 o 8 grammi di liqueur si rifà viva. Il risultato sono tuttavia spesso più vini golosamente rotondi che davvero appesantiti.

In materia di dosaggio, vari produttori rimangono ancorati alla liqueur traditionnelle, rifiutando l’uso di MCR. Che altri invece incensano per la sua neutralità aromatica. Il dibattito rimane aperto.

Quest’altalena tra morbidezza, per non dire dolcezza, e ricerca di tensione, chiama sempre più frequentemente in causa la querelle sulla fermentazione malolattica. Bisogna constatare che molti produttori – spannometricamente sempre più numerosi – scelgono di inibire la malolattica. Un’opzione comprensibile, a fronte del surriscaldamento globale, e quindi dell’innalzamento generalizzato dei pH. Nondimeno, una soluzione che non mette del tutto al riparo da alcune conseguenze qualitative. Non mi paiono rari i casi in cui una malolattica bloccata consegni sì vini più crudi, ma anche induriti e di conseguenza meno armoniosi.
Per quanto mi riguarda continua peraltro a sfuggirmi il vantaggio di bloccare una malolattica e poi dosare lo spumante. Su un piano epiteliale mi sembra un controsenso.

E ancora: il meunier, in costante arretramento quantitativo delle superfici vitate (considerato da alcuni la varietà meno adatta al cambiamento climatico), ma sempre più frequentemente valorizzato da etichette dove figura come monovitigno. E, occorre precisare, spesso con merito o ragion d’essere.

Infine, il successo di pubblico. La Champagne sta entrando in crisi, lo dicono i numeri. Ma quanto meno in Italia continua a sprigionare una capacità attrattiva e di eccitazione che, come in moltissime altre regioni, la qualità media dei vini non basta a giustificare. È ancora, anzi forse più che in passato, un trascinante fenomeno socio-culturale e di costume. Finirà prima o poi per incepparsi? •

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