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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Ferdinando Baron
Senegal 1: venerdì sera tra i giovani di Dakar

«Inventare il nostro futuro»
La notte africana di Josie, Idrissa, Mamadou e Didier: musica, birra e speranza.

di Ferdinando Baron

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La voce del muezzin si è appena spenta. L’eco delle parole ancora percorre i viottoli e raggiunge le case, a scandire la fine della giornata. È venerdì sera a Dakar. Gli ultimi nomi di Allah raggiungono l’interno di un piccolo appartamento nel quartiere Sacré Coeur. Ma Josie non lo sente. Lo stereo è a tutto volume, si sta truccando, perché stasera esce con gli amici, come ogni week end. Fa la cameriera in un bar del centro città, dove gli uomini d’affari, i funzionari governativi e la varia fauna che ruota attorno alla politica spesso si ritrovano. Fuori, le polverose strade della capitale sono piene di venditori, di traffico e caos. Sua madre è musulmana, come suo padre. Lei in moschea non ci va. Fiera di essere di religione islamica, deve però aiutare la famiglia. Deve lavorare. Quindi niente veli in testa o vestiti della tradizione.
Poche case più in la, delle parole del muezzin a Idrissa non frega proprio nulla. Sua madre è cristiana, suo padre non sa chi è. Il suo rapporto col Creatore è di indifferenza, che pensa sia ricambiata da Dio stesso. Più che credere, stima Gesù, che ha visto raffigurato nella cattedrale cattolica di Dakar. Lo conosce meglio però dai testi delle canzoni rap che adora. Anche Idrissa si sta preparando a uscire. Si va a ballare, poi chissà. Magari riuscirà a combinare qualcosa con Josie. Oppure conoscerà qualche bella turista.
Benvenuti in Senegal. Un Paese di 11 milioni di abitanti, dove l’età media è 20 anni. Dove cristiani (10% della popolazione) e musulmani (90%) convivono senza troppi problemi. Dove il grande collante della gioventù, più della preghiera, è la musica. Dove le discoteche della capitale, Dakar, si riempiono il venerdì e il sabato notte. L’offerta di divertimenti notturni è paragonabile a quella di Milano. Ci sono locali in cui ballare, cocktail bar, ristoranti di successo, night club. Josie e Idrissa andranno al Gaal Gui club, sul lungomare: una radio locale ha organizzato una festa, tramite un amico dj sono riusciti ad avere i biglietti. La scena potrebbe essere di quelle che si vedono a Berlino, ad Amsterdam. Prima la fila all’ingresso, coi buttafuori inflessibili. Poi si entra, ordinatamente. Quindi parte la musica e con essa ballo, alcool, risate. Reggaeton, reggae, rap, hit americane ed europee riempiono l’aria. Uomini e donne si mischiano senza alcun problema, ballano, flirtano. C’è qualche faccia bianca, chiaramente turisti, che provano le movenze africane. Non riscuotono grande successo, ma ottengono comprensione dai ballerini più bravi e un applauso consolatorio.

foto di Ferdinando Baron

È Africa questa? Sì. Lontano dallo stereotipo delle guerre, carestie e sofferenze, che sembrano essere l’unico motivo per cui parlare di un immenso continente dalle grandi ricchezze umane prima che materiali. Certo, Dakar non è il paradiso. Ci sono le baraccopoli, periferie colme di immondizia e miseria. Ma non sono l’unica cartolina dal Senegal.
«I giovani preferiscono darsi appuntamento a casa di qualcuno, portando birre, vini, e buona musica. Non sono molti quelli che si possono permettere di pagare il biglietto di ingresso di un club», spiega Idrissa. Ma non c’è problema per i senegalesi, gente accogliente e decisamente allegra. Sono le cinque del mattino. Il Gaal Guj club è ancora aperto. Un gruppo di giovani esce e raggiunge un’auto mezza sgangherata. È di Mamadou, amico di Josie e Idrissa, se l’è comprata in Nigeria e l’ha fatta entrare in Senegal. I soldi per pagarsela, e sistemare casa alle sorelle, li ha sudati lavorando in Italia. Prima venditore di strada, poi operaio a Brescia. È tornato a casa. «Troppo freddo, troppo freddo. E poi la neve mi terrorizza», racconta ridendo. Nella sua macchina, con un po’ di contorsioni, entrano sei persone. Si lascia la discoteca e si punta al locale degli ivoriani e dei ghanesi, poco fuori dal centro di Dakar. L’atmosfera e l’arredo ricordano il centro sociale Leoncavallo di Milano: spazi dismessi recuperati alla musica, con tavoli dove, alle sei del mattino, si possono contare le birre bevute e vedere qualcuno ancora impegnato in discussioni. «La religione? C’è chi ci crede e chi no. Non è mai un problema. Il vero problema è trovare un lavoro, mantenersi e conoscere una brava ragazza», questo il Leitmotiv. Uomini e donne, quante incomprensioni. E l’amore fa soffrire. Qualcuno, stanco, si addormenta. Gli altri resistono: la luce dell’alba comincia a fare capolino su Dakar.

foto di Ferdinando Baron

In auto, al ritorno a casa, si ascolta la musica dell’idolo dei giovani dj Didier Awadi, rapper arrabbiato ma dalle idee molto chiare. Un suo album si intitola Un altro mondo è possibile, l’ultimo Sunugaal, racconta l’emigrazione clandestina. Il suo studio di registrazione è nel quartiere del Sacré Coeur di Dakar (un piacevole mix di case, chiese cristiane, moschee e case musulmane). Lo ha intitolato a Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso assassinato per le sue idee progressiste. Non ci sono immagini religiose. Campeggia una gigantografia di Ernesto Che Guevara. «I giovani non sono d’accordo con la politica dei nostri governanti - ha spiegato Awadi in un’intervista sul giornale della compagnia aerea di bandiera - per questo molti emigrano illegalmente, rischiando le proprie vite. I politici africani hanno spesso fallito perché le loro controparti occidentali non vogliono lasciare all’Africa le sue proprie ricchezze. Noi dobbiamo credere in noi stessi e darci da fare per inventarci un nostro futuro. E in tutto questo la religione non c’entra nulla».
La nottata è finita. È sabato, il caos di Dakar è un po’ meno frenetico. Alla sera ci saranno altre uscite con gli amici. Forse danno un concerto sul lungomare. Idrissa e Josie sceglieranno insieme a Mamadou, Aminata, Assane, Aliou e agli altri. Basterà ascoltare la radio per farsi venire qualche idea. Di sicuro, i facoltosi stranieri e i senegalesi ricchi si porteranno verso la zona costiera di N’gor, nei ristoranti di un certo livello. Magari dopo aver provato, nel pomeriggo, l’acrobab, vale a dire il free climbing arrampicandosi sui robusti tronchi del baobab, albero sacro della tradizione mitologica senegalese. Quando si dice mentalità aperta: ve l’immaginate l’arrampicata libera sulla facciata di San Pietro a Roma per invogliare i turisti? Anche questo è il Senegal: cuore africano e giovani alla ricerca della felicità e della stabilità, che sia in stile occidentale o secondo le tradizioni locali. Come accade, del resto, in ogni angolo abitato di questo nostro immenso, ma in fondo piccolo, pianeta.

Ferdinando Baron, giornalista professionista dal 2003, cronista e narratore, è corrispondente del Corriere della Sera per il Nordmilano

     
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