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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Ferdinando Baron
Confini / 3: la Spagna dalle tante facce

Quella frontiera con fine
Bilbao ha superato la distinzione tra centro e periferia. Avila miscela religione e business. Valencia risorge dalle acque.

di Ferdinando Baron

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Término, frontera, boundaries, borders, frontiera, confine. Ciò che ci separa ha diversi modi per affermarlo, diversamente da ciò che ci unisce, spesso senza parole. E nel viaggio ai confini e nei confini, ha un particolare interesse capire dove sono i nostri confini, quelli che permeano la nostra mente, e dove sono quelli che gli altri segnano per noi, cui ci accostiamo con rispetto dandoli fin quasi per scontati, come se fossero (e come si riteneva nel XIX secolo) confini naturali, messi lì dalla natura o da Dio. Eppure gli uni e gli altri, i confini dentro di noi e quelli fuori di noi, una volta riconosciuti, ci permettono di superarli. Perché, come scriveva efficacemente Ignazio Silone, «L’uomo non esiste veramente che nella lotta contro i propri limiti».

Questo piccolo viaggio in Spagna indaga una parte del Paese anche attraverso i confini - mentali, culturali, geografici - che vi si incontrano. La modernità e la post modernità, infatti, hanno irrobustito alcuni confini, ne hanno demoliti altri. Dove vi erano confini ora vi sono frontiere e dove frontiere, confini. I due termini - confine e frontiera - pur sinonimi non hanno lo stesso significato. Confine è, secondo un filone scientifico che lo studia e lo indaga, «non luogo di assimilazione ma di separazione, una manifestazione della capacità dello Stato di tenere fuori i nemici e dentro i cittadini e le risorse» (Sul concetto di confine, Maria Paola Pagnini Alberti - Università degli Studi di Trieste). È qualcosa di definito, che a sua volta definisce. Sicuro e certo. In questo senso in Spagna, per alcune regioni (i Paesi Baschi e la Catalogna, ad esempio) non si può parlare di confini - non ancora almeno - ma di aspirazioni ad avere dei confini, che significano separazione e certezza d’identità.
La “frontiera”, invece, è dinamica, è «luogo di transizione che rappresenta l’apertura e l’integrazione». È mobile, instabile, come lo fu per gli Americani la frontiera dell’Ovest (vedi il saggio di Frederick Jackson Turner - La frontiera nella Storia americana, Il Mulino).
La Spagna è piena di frontiere: quella tra industria e terziario, diventata anche frontiera tra centri (al plurale) e periferia all’interno di Bilbao. E ancora ad Avila, tra religiosità e turismo di massa. O tra acqua e terra, a Valencia. La Spagna, per la sua storia fatta di riconquista violenta ma anche di amore per l’arte, di rigido centralismo eppure di mancata assimilazione del sentimento nazionale, di sopportazione di una lunga dittatura ma anche di passaggio repentino alla democrazia, è un ottimo laboratorio per capire il rapporto tra confine e frontiera.

foto di Ferdinando Baron

Bilbao, la frontiera abbattuta tra centro e periferia
Il viaggio parte da Nord, da Bilbao. È la più industrializzata tra le città della Biscaglia, provincia della Comunità Autonoma Basca. Il governo spagnolo franchista, nel corso dei 40 anni di dittatura, aveva vincolato l’economia della città con grandi complessi siderurgici, attività minerarie, un porto attivo nei rapporti attraverso l’Atlantico. La deindustrializzazione cominciata a metà degli anni Settanta ha inciso pesantemente sulla città. I vecchi siti minerari e industriali hanno creato «una zona di decadimento e degrado [con una] massiccia distruzione fisica ed ambientale per tutta l’area metropolitana» (vedi il saggio Rodríguez e Martínez, The globalized city, 2003). La disoccupazione è schizzata alle stelle (25% tra i giovani), la città si è trasformata in un’immensa periferia industriale, senza più un senso compiuto. Da queste basi, è partita l’iniziativa delle amministrazioni locali verso il recupero di intere parti di città. Bilbao ha scelto la strada della “City as spectacle” (per citare una definizione contenuta nel saggio di Deborah Stevenson - Cities and urban cultures) per entrare nel giro delle “città globali”. Una “città spettacolo” che ha chiamato e finanziato le “archistar” da Norman Foster a Santiago Calatrava, da Cesar Pelli a Harata Isozaki, architetti famosi come rockstar, le cui costruzioni sono conosciute e riconosciute in tutto il mondo. L’amministrazione ha voluto che lasciassero un segno nella città, per rilanciare l’identità basca attraverso l’architettura. Così, accanto al Guggenheim (progettato da Frank Gerhy), cattedrale dell’arte moderna, monumento globale prima ancora che il proprio contenuto, sono sorti l’Euskalduna Jauregia, cioè il palazzo della musica e dei congressi del popolo Basco, il nuovo aeroporto di Calatrava, la metropolitana di Foster e via elencando. Opere dell’architettura moderna che hanno portato a Bilbao un milione di turisti l’anno. La città ha così non solo abbattuto lo steccato tra centro e periferia (le opere architettoniche sono disseminate nelle ex aree dismesse ma anche nel centro della città), ma ha eliminato la frontiera tra globale e locale declinando in chiave internazionale un’aspirazione locale, come quella di lasciare al popolo basco un futuro e un’economia fatti non di recriminazioni e rivendicazioni autonomiste, ma opere che raccontino l’operosità dello stesso popolo, nelle quali riflettere l’orgoglio di essere baschi.

Avila, Santa Teresa e il polpo Paul
Se Bilbao è profondamente basca, Avila è immensamente castigliana. Non poteva che essere così, situata a un centinaio di chilometri dalla capitale, Madrid. Con poco più di 50mila abitanti, è una delle città con il maggior numero di chiese e di hotel, in relazione al numero di abitanti. Gli spagnoli la considerano luogo di “Cantos y santos” (canti religiosi e santi). Le possenti mura, perfettamente conservate, le chiese e gli imponenti conventi, tutto ricorda che questa è la città di Santa Teresa, San Giovanni della Croce, San Secondo. Santa Teresa stessa, del resto, in alcuni suoi scritti paragonava Dio a un castello, e vedendo Avila, non è difficile capire da dove nascesse la metafora. Ciò che tuttavia colpisce della città è di cogliere una sorta di distacco, degli abitanti e dei turisti, rispetto a questo fervore religioso. Nei negozi, immagini di Santa Teresa convivono (e sono in vendita) accanto a portachiavi con il polpo Paul, il celebre mollusco diventato beniamino dei tifosi di calcio spagnoli, dato che aveva predetto la vittoria della Spagna ai mondiali del 2010 in Sudafrica. Forse, il confine tra religione e superstizione non è poi così netto e si sta trasformando in una frontiera dove l’uno invade gli spazi dell’altro: pregare Santa Teresa nella Spagna franchista o sperare nel Polpo Paul in quella post moderna potrebbero essere due facce della stessa medaglia. Se non la medesima faccia.

foto di Ferdinando Baron

Valencia
Questo breve viaggio nelle frontiere spagnole si conclude con due grandi città. Valencia, circondata da due fiumi, entrambi quasi senza acqua, ha cercato di far diventare questa peculiare caratteristica un nuovo modo di vivere. Il Turia, il vecchio fiume, infatti, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso scorreva a oriente del centro storico, ma dopo l’ultima disastrosa inondazione del 1957 fu deviato a occidente, fuori dalla città. La portata dello stesso è via via diminuita nel tempo a servizio dell’agricoltura e dell’industria e anche nel ramo sud non scorre che un pallido ricordo del vecchio fiume. Oggi Valencia ha rilanciato entrambi i percorsi. Quello abbandonato dalle acque, in quarant’anni di paziente lavoro è diventato il Jardin Turia, un parco urbano che attraversa tutta Valencia, fungendo da polmone verde e luogo di ristoro e divertimento. Il nuovo corso, invece, ospita l’avveniristica “Città delle arti e delle scienze”, progettata da Calatrava. Gli edifici sono letteralmente circondati dalle acque e da esse sorgono, insieme all’Oceanografico, l’imponente acquario. Una metafora potente della rinascita di Valencia e del superamento della frontiera acqua/terra, fiume/città che invece caratterizza il paesaggio delle metropoli europee fin dalla loro nascita: il corso delle acque da quello degli umani è certamente ben distinto a Londra, Parigi, Berlino, Roma.

Ferdinando Baron, giornalista professionista dal 2003, cronista e narratore, è corrispondente del Corriere della Sera per il Nordmilano

     
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