Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Stefano Gianuario |
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Confini / 4:
tra Italia e Francia La
vallée incantata (?) Aosta
e la sua regione: esempio riuscito di “confine dilatato” in
un equilibrio possibile. Senza stare né di qua né di là.
di Stefano Gianuario |
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Accade. Non così spesso, ma accade. Che un luogo di confine, percepito
nell’immaginario collettivo come terra di nessuno, come frontiera
fra due realtà, fra due mondi, come qualcosa da lasciarsi in fretta
alle spalle per arrivare alla propria meta, svesta questi panni appiccicati
addosso con leggerezza da qualcuno e mostri la sua natura e la sua
anima, diventando luogo di bellezza, terra di mezzo.
Accade quindi che un confine non si arrenda all’idea di essere poco
più di una linea di demarcazione e provi a reinventarsi, traendo beneficio
proprio dalla sua natura di frontiera, di qualcosa che separa due
Paesi, due nazioni, due luoghi, carpendo segreti e virtù da ciascuno
dei due e miscelandoli sapientemente, come seguendo i crismi di un’antica
tradizione druidica, ottenendo dunque un’idea di insieme alchemica,
una pozione speciale e inimitabile.
Accade che un confine trovi una sua dimensione, sgomitando magari
per crearla, sino a dare un equilibrio possibile. Qualcosa del genere
accade in Valle d’Aosta che, soprattutto nella sua città principale
(una cittadina che ha l’onere del capoluogo della regione più piccola
d’Italia), raggiunge l’equilibrio possibile, il salubre bilico tra
le due culture, quella italica e quella dei cugini d’Oltralpe, così
vicini ma così diversi.
Un equilibrio, quello di Aosta, nato non dal caso, ma da un lavoro
secolare e certosino, fatto di centimetri guadagnati e centimetri
persi. Di contese che si perdono nei meandri della Storia, dalla fondazione
della città, ad opera dei Latini, battezzata Augusta Praetoria
Salassorum, sino alla conquista “barbarica” e al battibeccare
tra due popoli - Longobardi e Franchi - e all’avvento di Carlo Magno.
Poi ancora, in “odore più italiano”, con il ruolo di sede vescovile
voluto dal Vaticano e nuovamente vicino ai Transalpini, con il Regno
di Borgogna, sino al passaggio sotto l’egida della dinastia Savoia
e da lì, in qualche modo sempre attrice fondamentale di tutte le travagliate
vicende che portarono all’unità del Paese e alla creazione del Regno
d’Italia.
Contese quindi, ma anche rivendicazioni, abbandoni, nuove conquiste,
a scapito (quasi sempre) di un popolo che ha faticato non poco a trovare
una sua identità, sino a giungere non a una resa ma a una consapevolezza:
l’identità non è necessariamente unitaria ma la fusione perfezionata
con il tempo delle culture che si affacciano sulla Vallée.
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foto di Samuel Cogliati |
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Dapprima il nodo è stato linguistico, per della gente, di montagna
semplice di lignaggio ma nobile di spirito, che più che perdere tempo
con il dire, aveva da affaccendarsi parecchio sul fare.
Ma per persone abituate a lottare con le asperità di un territorio
“duro”, flagellato da inverni a dir poco rigidi, una sfida del genere
era poca cosa. E quindi un dialetto, poi l’altro, poi una lingua,
poi l’altra e dunque entrambe, e ancora la fusione e la ricerca di
una sorta di armonia. Sino ad adesso, ai giorni nostri, dove non è
difficile sentirsi salutare con un buongiorno ed essere ringraziati
con un merci.
Dopo questo passo, la ricerca dell’equilibrio non poteva che proseguire
e Aosta ha continuato ad affiancare cose, magari apparentemente molto
distanti tra loro, ma in seguito abilmente integrate l’una nell’altra.
Dalla capacità di far amare a gente d’ogni luogo una cucina povera,
essenziale e robusta, e di produrre vini sublimi in un fazzoletto
di terra per esportarli ben oltre i confini regionali.
Poi, la sensazionale attitudine a essere viva (senza darlo a vedere,
senza la necessità di ostentarlo), di colmare le strade di autoctoni
e turisti, sia il giorno sia la notte, d’estate come d’inverno, senza
che questi diventino una massa incolore e confusionaria. Un controllato
silenzio regna sovrano nelle strade della cittadina, una sorta
di rispetto acustico, fatto di urla sottovoce, di chiacchiere continue
ma mai berciate.
E ancora la sua architettura, ariosa, proprio come una grande città
d’Oltralpe, ma anche come la vicina Torino, di ampio respiro, seppur
concentrata in poche vie. Con i suoi monumenti, retaggio di epoche
lontanissime tra loro, con i resti del teatro romano, passando per
i castelli medievali, sino agli stili più moderni.
Aosta non sarà un paradiso terrestre, un eden montano, nel quale rifugiarsi,
i difetti si faranno sentire al pari dei pregi, come in qualunque
altro luogo della Terra. Ma un monito o, meglio un suggerimento Aosta
può sicuramente darlo. Dall’essere designato quale luogo di confine,
di separazione è stato in grado di diventare un luogo di incontro.
Anziché additare le diversità, ne ha fatto tesoro, non perdendosi
nel far la conta dei difetti delle due culture che la lambiscono da
secoli, (senza mai prenderne realmente possesso) ma elogiandone le
qualità.
Ed è proprio questo il messaggio che potrebbe arrivare dalla questione
aostana, integrazione anziché smembramento, lottare per unire
invece che per dividere. Fare tesoro delle diversità, creando valore
aggiunto.
In un periodo, in cui nel Belpaese propositi di divisione fanno proseliti
più che mai, in cui piuttosto che pensare sempre più al globale, al
comunitario, si preferisce il locale, come fosse un orticello limitato
e sicuro, da curare a vista invece che un giardino sterminato, per
scoprire il quale occorre fare grande ricorso all’immaginazione, ecco
come dalla realtà più locale della Penisola arrivi l’insegnamento
più globale che si possa ricevere. Stefano
Gianuario è nato a Milano nel 1985. Giornalista pubblicista, freelance,
scrive di turismo, cronaca e musica. Suona nella noise band Hezel.
Nel 2004 ha pubblicato il romanzo Le cose di Jack |
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